lunedì 13 luglio 2009

Trabocchi d'Abruzzo


























I Trabocchi
Tiranti ed assi, pali e reti a bilancia ed equilibrate ragnatele di cime, collegati alla terraferma da passerelle di legno, esili ma allo stesso tempo solide. Una sorta di palafitte, tanto radicate sugli scogli e nella sabbia del mare da resistere alle onde e al forte soffio dei venti. Ecco i trabocchi, quelli che Gabriele D’Annunzio descriveva ne “Il trionfo della morte” dal suo eremo di San Vito Chetino come “....la grande macchina pescatoria composta da tronchi scortecciati, di assi e gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano”. È il frutto dell’ingegno dell’uomo per rispondere alla morfologia della zona, dove a scogliere frastagliate si alternano piccole cale ciottolose e solitarie passando per spiagge di sabbia dorata, senza attracchi e porti nelle vicinanze.Dunque il trabocco come la migliore mediazione tra mare e terra, per diventare nei secoli il simbolo dell’Abruzzo dei pescatori, segno di una civiltà legata alla pesca di tipo familiare.Queste strutture erano utilizzate d’inverno per la cattura dei cefali, delle spigole e dei pesci di scoglio e in estate per quella delle sardelle e del novellame, quando i pescatori non potevano recarsi in mare con le paranze a causa delle intemperie, oppure quando non disponevano delle imbarcazioni stesse.Così ricchi di mistero, i trabocchi colpiscono l’immaginario collettivo così come entusiasmarono artisti del calibro di Gabriele D’Annunzio e Francesco Paolo Michetti, quando, un tempo non molto lontano, erano fonte di ricchezza. Oggi restano parte integrante e fortemente caratterizzante del tratto di costa compreso tra Francavilla al Mare e San Salvo e ritraggono un’affascinante testimonianza dello strano e profondo rapporto tra l’uomo e il mare, anche grazie alle iniziative di tutela e di recupero come patrimonio culturale e ambientale, come vere e proprie opere d’arte, da parte degli enti locali.

Terra inferma
I marinai dell’Adriatico lo sanno bene, [...]: l’opposto del mare non è la terra, cioè la costa subito a ridosso, ma la terraferma, [...]. La terra come il mare è dinamica, si muove, cambia di continuo assetto e profilo, muta sistematicamente - sebbene più lentamente del mare - la propria forma. Anche perciò, e forse proprio perciò, tra terraferma e mare, dunque tra la figura del contadino e quella del pescatore, in tutto il Mediterraneo il divorzio è stato, e di fatto resta, pressoché assoluto. E questo fin dall’antichità, come Karl Polanyi e i suoi allievi da tempo hanno documentato. Soltanto con l’avvento del modello territoriale cui oggi siamo abituati, quello dello stato moderno centralizzato, la costa è stata accorpata all’interno, l’avampaese è divenuto solidale con il corpo arretrato, il fronte marittimo adriatico si è trovato inglobato alle dipendenze delle ragioni e degli interessi delle potenze marittime e continentali settentrionali [...]. Ma grazie alla lista della strada ferrata quel che fino ad allora era palude, risaia o deserto, come tutti i viaggiatori attestano, terra di nessuno a tratti malarica sulla quale era proibito abitare perché luogo di contrabbando, diventa altra cosa, un’arteria di comunicazione a scala continentale tra il centro dell’impero e i suoi dominions, ma anche, a scala locale, inedito giunto tra terra e mare, tra il pescatore e l’agricoltore. Pietro Cupido ha ricostruito con minuzia, sul piano della tecnologia minima, quanto i trabocchi della costa chietina debbono all’avvento della ferrovia. Ma di là dall’aspetto tecnico, essi debbono a quest’ultima, prima ancora che la materia prima necessaria alla costruzione, l’identificazione stessa dell’ambito del loro impianto: straordinario caso di come la produzione dello spazio (perché di questo si tratta: della riduzione del mondo a tempo di percorrenza, che tra Otto e Novecento culmina appunto con l’estensione della rete ferroviaria) implichi quella dei luoghi, di nuovi rapporti territoriali su base locale. Per spiegare la grande rivoluzione spaziale moderna, quella che presuppone lo spazio infinito e che anima l’epoca delle grandi scoperte geografiche, Carl Schmitt è ricorso, proprio a proposito dei rapporti tra terra e mare, all’esempio della statuaria, spiegando come a Firenze, in virtù dell’invenzione prospettica, fosse possibile per la prima volta collocare statue al centro della piazza, dunque nel vuoto: [...]. Lo stesso vale per trabocchi, espressione appunto legata alla logica locale e non a quella spaziale, dunque aggrappati come una protesi alle rocce della costa, timorosi di fronte al mare aperto che si spalanca davanti a loro. [...]. E l’epoca in cui viviamo, che comunque si voglia definirla è quella della crisi del moderno modello spaziale, è quella della riscoperta dei luoghi: proprio perché il funzionamento del mondo ha sempre meno bisogno di quell’approssimazione di cui lo spazio è prodotto ed insieme veicolo, e che si fonda in sostanza sulla riduzione della faccia della Terra a tempo di percorrenza. [...]. Ogni luogo racconta al riguardo la storia di un rapporto, e poiché nessuno può dire quali saranno i rapporti futuri, tutti i racconti vanno custoditi, e tutti gli oggetti che servono a raccontarli vanno preservati e mantenuti. Come dire che tra il futuro dei trabocchi e quello dell’umanità adriatica – il nostro – non vi è, a pensarci un momento, nessuna differenza.

Franco Farinelli Professore di Geografia presso l’Università di Bologna

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