lunedì 30 settembre 2013

Il Giovane Manager


C’era una volta,

Un giovane manager che aveva iniziato la sua avventura professionale come operatore in una multinazionale, rispondendo come si faceva una volta ad un annuncio sul giornale, e avviandosi così al mondo del lavoro facendo la cosiddetta gavetta. Era stato scelto per le sue doti: umiltà, passione e dedizione per ciò che faceva, spirito di squadra ed entusiasmo. Doti che in pochi mesi gli fecero avere la promozione al ruolo di “manager” e team leader.

Amava le letture che lo ispiravano e le storie di grandi imprenditori e manager. Proprio la lettura di un libro sul fondatore della “sua” azienda lo aveva fatto appassionare ancora di più.

I giorni ed i mesi passavano ed i compiti che gli venivano assegnati aumentavano sempre più e lui ne era soddisfatto. Pensava che più si dava da fare e più veniva considerato ed apprezzato; più tempo passava in azienda e più veniva notato dai suoi superiori; e così il giovane manager si concentrava sempre più sugli aspetti tecnici del suo lavoro, trascurando quelli relazionali con i propri collaboratori, proprio quegli aspetti che lo avevano fatto entrare in azienda facendogli guadagnare la promozione.

All’azienda “multinazionale” tutto questo andava bene,  perché il giovane manager passava tante ore in azienda e portava i risultati economici ed operativi che si aspettavano. Tutta questa dedizione, dopo alcuni anni si tradusse in una nuova promozione, questa volta a direttore di punto vendita, un nuovo punto vendita, dove tutto era da organizzare… a partire dalle persone.

Era diventato un manager dei numeri  dove la sua Bibbia era il "conto economico" e dove l’incidenza percentuale aveva una certa importanza. Applicava uno stile “direttivo”. Amava accentrare a se tutte le decisioni, per spirito di carità organizzava  riunioni con i collaboratori, per ascoltare i loro pareri, ma non riusciva a delegare alcuna responsabilità. I risultati operativi ed economici però gli davano ragione ed oggettivamente vennero riconosciute le sue capacità organizzative e competenze tecniche sia dalla direzione generale che da alcuni “cacciatori di teste” che gli proposero una nuova avventura professionale.

Il “giovane manager” affrontò questa nuova opportunità forte della sua esperienza ed orgoglioso per quello che era stato capace di costruire “da solo”. Pensò di dover gestire le stesse dinamiche organizzative e che quindi la strada sarebbe stata in “discesa”… Mantenne con il suo nuovo team lo stesso stile direttivo che comunque in passato gli aveva fatto raggiungere ottimi risultati. “Se una cosa funziona perché cambiarla!” pensò. Questa volta però le cose erano in realtà diverse: si trovava di fronte ad un team consolidato, che lavorava da tanti anni insieme e si relazionava in modo nuovo per lui, si 
C O N F R O N T A V A N O… ma lui alla fine decideva, senza condividere le sue scelte, “pretendeva in quanto capo l’ultima parola”.

Ma la “magia” era finita. Forse non era magia, era solo illusione… Il team non lo seguiva, anzi quasi lo evitava e le persone facevano paragoni con altri manager che lo avevano preceduto. Organizzava anche qui delle riunioni: collettive ed individuali, che sembravano però più dei monologhi. E proprio in un colloquio individuale con una sua collaboratrice successe una cosa che lo cambiò in modo radicale.

Con questa collaboratrice c’erano spesso divergenze di opinione e di visione: il giovane manager era un tipo “quadrato” e per lui le cose erano bianche o nere e non c’era nessuna sfumatura, nessun colore; la collaboratrice no, era un’artista (pittrice) ed il suo pensiero spaziava a 360 gradi. Svolgeva quel lavoro non per “vocazione” ma perché le serviva per vivere. Cosa doveva sentire il giovane manager! Proprio lui che nel lavoro vedeva soprattutto la realizzazione personale e professionale.
Ma nonostante la collaboratrice lavorasse “solo per mantenersi”,  lavorava in modo scrupoloso ed attento, interessandosi soprattutto al benessere del team.

“Ciao, come stai? Come va il lavoro?” esordì il giovane manager da dietro la sua scrivania, in una saletta asettica adibita per questo genere di colloqui.
“Perché ti interessa saperlo?” fu la pronta risposta della collaboratrice, che non vedeva l’ora di vomitargli addosso tutto quello che si teneva dentro in quel periodo.
“Non ti fidi di nessuno, te ne stai lì a fare il professorino, a dare ordini senza considerarci per niente e sappi che questo atteggiamento da superman non piace a nessuno!”
Il giovane manager, spiazzato da una simile reazione si mise subito sulla difensiva. Ma come, proprio lui che leggeva di management, di leadership, veniva accusato di essere un accentratore? Come si permetteva questa ragazza? Solo perché lavorava da tanti anni, chi gli dava il diritto di criticarlo così duramente? Proprio non era in grado di capirlo…

Turbato da questo colloquio, tornò a casa e nel silenzio della notte iniziò a ripensare alla sua storia di qualche anno prima: era stato un allenatore di basket e quello che amava di più era creare e gestire un team affiatato, appassionarlo al gioco; perché solo con la passione si possono affrontare le sfide; voleva essere un punto di riferimento per quei ragazzi che si affidavano a lui, e solo per ultimo gli interessava l’aspetto tecnico. Era solare ed amava trasferire al prossimo il suo entusiasmo, la sua passione e la sua gioia per la vita.
Cosa gli era successo? In chi o cosa si era trasformato, in quei pochi anni? Cosa voleva diventare? Una cosa era certa, non era quella la strada da percorrere, ma nonostante tutte queste domande non riusciva a trovare alcuna risposta.
Mentre girovagava per casa nella penombra, passò davanti alla sua libreria dove conservava i libri che più lo avevano interessato ed ispirato in quegli anni. Ne prese uno, lo aprì dove c’era un segnalibro e lesse un passaggio sottolineato “Non è importante ciò che fai per vivere…semmai ciò che fai per sentirti vivo”.
E lui stava vivendo? Si reputava un sognatore e spesso passava ore ad osservare dal faro del porto il mare infinito, soprattutto in inverno, quando la brezza pungeva sul viso.
Lui stesso ed i suoi sogni con il passare degli anni erano prigionieri delle dinamiche economiche, tipiche delle multinazionali, che gli avevano fatto perdere di vista il suo vero obiettivo: lavorare divertendosi con i propri colleghi, raggiungendo INSIEME gli obiettivi aziendali.
Leggendo quella frase e ripensando a tutte queste cose, si mise a letto e pianse lacrime liberatorie.

Una ragazza, una collaboratrice, quella che non stimava più di tanto perché “non devota al dio lavoro” gli aveva fatto riaprire gli occhi ed il cuore. Il giorno successivo la incontrò nei corridoi verdi dell’azienda, non sapeva cosa dire, le sorrise e le disse semplicemente “GRAZIE”.
Il suo stile cambiò, se ne accorsero tutti, e l’ormai non più tanto giovane manager, tornò ad essere questa volta un allenatore di Persone.

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