giovedì 19 giugno 2014

"Per me… numero 1" di Dan Peterson e Dino Ruta

"Per me...numero 1", più che un semplice libro e' stata per me una bella
"riscoperta" (grazie alla segnalazione sulla rivista "Millionaire" di qualche mese fa. Un campanello, che mi ha riportato ad una delle mie passioni di sempre: il basket, ad essere un allenatore di basket, un allenatore di Persone.
Già , perché ridurre il libro scritto dal mitico "coach" Dan Peterson e Dino Ruta, ad un semplice manuale di basket, sarebbe un vero errore; ridurre Dan Peterson ad un "semplice allenatore" sarebbe un grandissimo "orrore"...
E' un libro che racconta si di basket (come punto di partenza) ,ma è un libro che parla di gestione di una squadra (team di lavoro); non spiega come "fare" il coach, ma come "Essere" coach.
Un libro che estrapola l'essere coach di basket e sviluppa un metodo che può essere applicato sia al mondo sportivo che a quello lavorativo; poiché entrambi hanno un fattore in comune: PERSONE CHE LAVORANO/GIOCANO INSIEME PER UN OBIETTIVO COMUNE.
Dan Peterson nella sua filosofia di Coach identifica cinque pilastri che lo accompagneranno durante tutta la sua carriera, e nel mio piccolo ho provato a fare qualche parallelismo con il mondo del lavoro:
Primo pilastro: la società sportiva - l'azienda
Secondo pilastro: la squadra - i colleghi
Terzo pilastro: il pubblico - i clienti
Quarto pilastro: i media - pubbliche relazioni/marketing
Quinto pilastro: gli arbitri - istituti preposti al controllo
Come ho scritto prima, per chi opera nella gestione delle persone e' fondamentale essere un "allenatore di Persone" per cercare di tirar fuori e valorizzare il talento che ciascuno ha. Nel libro viene raccontato un bellissimo aneddoto e significativo su questo tema:

(Pag 19) - "...quando potevo andavo a trovare Danny Blaze, che all'epoca allenava la squadra di basket...stiamo camminando verso il campo e gli chiedo della squadra: "coach come sarà la squadra quest'anno?" E lui mi risponde: "Dan non lo so...non partiamo favoriti, ma se mettiamo il Cuore potremmo farcela". Quelle parole rimbombano nella mia mente: " se giochiamo con il cuore..." .... A quel punto per cercare di fare colpo su di lui gli dico : "Eh coach peccato non poter guardare dentro il petto di un uomo, per vedere se dentro c'è davvero un cuore che batte!". Dopo questa affermazione mi sentivo molto intelligente e fiero di questa affermazione; ma ecco che coach Blaze si ferma mi si mette faccia a faccia e mi dice: "non è vero niente! Tu puoi guardare dentro, e' il tuo lavoro. Tu puoi guardare dentro gli uomini, e devi farlo! Devi prestare attenzione ai dettagli, alle piccole cose, devi leggere in faccia le persone, devi saper leggere cos'hanno dentro"...

Un libro scritto in modo magistrale a "quattro mani" da Dan Peterson e Dino Ruta, dove l'entusiasmo e la passione del primo vanno a mescolarsi ed integrarsi con i modelli schematizzati e duplicabili da ciascuno del secondo. Un libro dedicato, come dice "IL Coach" agli "amici sportivi e non sportivi".
Buona lettura

"PER ME … NUMERO 1" - Dan Peterson è "IL" Coach per antonomasia. Quello che forse  non tutti sanno è che alla carriera sportiva ne ha affiancata una seconda come business coach, in cui da anni mette in gioco le sue grandi capacità comunicative e di motivazione sui temi della leadership e dell'efficacia personale, temi che avvicinano il mondo dello sport alle dinamiche di quello aziendale. Non è necessario essere appassionati di basket, aver seguito le squadre da lui allenate o le partite accompagnate dalle sue vivacissime telecronache: Dan Peterson lo conosciamo tutti. E chi non ricorda le sue frasi ad effetto, su tutte "Per me… numero1!"?
Leadership, oggi più che mai, significa essere unici. Per crescere come leader (o far crescere dei leader) basta allenarsi, lavorando innanzitutto sulla capacità di apprendimento e sulla consapevolezza che questo processo richiede. Il libro raccoglie per la prima volta - direttamente dalla voce del protagonista - una serie di aneddoti della vita di Dan Peterson. Da ciascuno degli episodi selezionati, e raccontati con tutta la vivacità del personaggio, si evincono gli insegnamenti che Dino Ruta ci aiuta a mettere a fuoco negli "schemi di allenamento" a chiusura di ogni capitolo. Disegnate all'interno di un discorso coerente e scientificamente fondato sul tema della leadership, tali indicazioni trovano puntuale riscontro in "schede di allenamento" spendibili nella pratica. Rivolto, come direbbe Peterson, agli "amici sportivi e non sportivi", il libro ospita la testimonianza di dieci grandi nomi dello sport le cui parole completano (e confermano) il ritratto a tutto tondo di quel formidabile modello di leadership autentica che "IL" Coach rivela essere.

DAN PETERSON - è il protagonista indiscusso di due carriere: la prima nello sport, la seconda nel management. Dall'esordio come coach negli USA all'esperienza in Italia con Bologna e Milano, passando per il Cile come allenatore della nazionale, è stato votato dai colleghi Allenatore dell'anno in serie A nel 1979 e nel 1987, e allenatore dell'anno in Europa nel 1987, quando ha vinto il Gran Slam con l'Olimpia. E' nella Hall of Fame della Federazione Italiana Pallacanestro e dell'Olimpia Milano, dello Stato dell'Illinois e dell'Evanston Township High School. Nel mondo del management, in virtù delle sue lauree conseguite alla Northwestern University e all'Università del Michigan grazie ai 40 anni in panchina e facendo tesoro della vasta esperienza come commentatore sportivo, ha svolto più di 1.000 lezioni sui temi della leadership e dell'efficacia personale.


DINO RUTA - è associate professor presso SDA Bocconi School af Management e direttore del master in organizzazione del personale dell'Università Bocconi. Direttore scientifico del FIFA Master in Management, Humanities e Law dello sport, ecc. Svolge attività di ricerca e docenza sul binomio persone e sport. Svolge attività di advisor per FIGC, RCS sport e Vero Volley, ed è consulente d'impresa sui temi di people strategy e leadership. Autore di diversi libri e pubblicazioni.

www.dinoruta.com


domenica 15 giugno 2014

"12 anni schiavo" & "The Butler"

Ultimamente, ho visto questi due film che mi hanno molto colpito perché tratti entrambi da storie vere. E siccome si parla di storie vere bisogna far caso al tema ed al luogo dove esse sono ambientate: il tema è il "Razzismo" con uno dei significati più brutti della storia, quello del popolo "bianco" sul popolo "nero"; l'ambientazione sono gli Stati Uniti d'America, oggi Paese simbolo della Libertà e dell'uguaglianza nei diritti.
Ma se guardiamo bene le date dei film ci rendiamo conto che sino a qualche decennio fa le cose negli USA non andavano bene, era ancora un Paese dove la schiavitù era legalizzata, dove un "Negro" era solo uno schiavo, non una persona, nessun diritto, solo il dovere di servire il proprio "padrone bianco" senza contrariarlo minimamente anche solo con uno sguardo. pena la morte…Nel film "The Butler" c'è una frase che fa riflettere: "Gli americani chiudono sempre un occhio su quello che hanno fatto al loro popolo. Guardiamo il resto del mondo e giudichiamo. Sentiamo parlare dei campi di concentramento ma quei campi ci sono stati per ben 200 anni anche qui in America".
Ma gli USA sono una grande nazione (anch'essa con le sue contraddizioni) che però ha saputo guardarsi dentro ed abolire questo grande "cancro" che portava in se: l'abolizione del razzismo e l'affermazione dei Diritti dell'Uomo a prescindere dalla razza, religione, ecc.
In nome di questa battaglia sono morte tante Persone, nere e bianche, come Martin Luter King, il Presidente John Kennedy e tanti altri.
Due film che fanno molto riflettere su com'era qualche anno fa il mondo, come alcune forme di razzismo ci sono ancora, e come ciascuno d noi nel proprio quotiano deve comportarsi per tutelare e valorizzare il Diritto di ciascuno di noi ed essere un Uomo Libero in tutto il mondo.
Buona lettura e buona visione



12 ANNI SCHIAVO: Stati Uniti, 1841. Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini,
Solomon infila un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, Solomon avanzerà nel cuore oscuro della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome. In suo soccorso arriva Bass, abolizionista canadese, che metterà fine al suo incubo. Per il suo popolo ci vorranno ancora quattro anni, una guerra civile e il proclama di emancipazione di un presidente illuminato.
Da più di un anno il cinema americano prova a fare (veramente) i conti con la mostruosità della schiavitù, peccato originale della nazione che fa il paio col genocidio indiano. LincolnDjango Unchained e 12 anni schiavo sono opere diverse e discordanti, la cui prossimità sortisce letture maggiori ed è qualcosa di più di una coincidenza. Il soggetto, affrontato, aggredito, sfidato e condiviso, sottolinea la delicatezza di una vicenda storica lontana dall'essere assorbita nel Paese di Barack Obama. Se nel film di Steven Spielberg la figura e la condizione dello schiavo è nascosta tra discorsi, proroghe e mediazioni, in quelli di Quentin Tarantino e di Steve McQueen è un visione eversiva che sfida l'impero o lo subisce per dodici anni. Distinti nelle maniere, Django è loquace e carnevalesco, Solomon è greve e silente, l'uno abbraccia l'eroismo sonante, l'altro in sordina, uno castiga, l'altro attende, i protagonisti di Jamie Foxx e Chiwetel Ejiofor condividono nondimeno un'espressione decisiva e ambigua, un'eccezionalità. Django e Solomon sono nigger speciali, schiavi fuori dal comune che finiscono proprio per questa ragione per sfuggire al destino del loro popolo. Se Tarantino riscrive il passato e libera l'invenzione concretizzando un sogno che intercetta gli avvenimenti storici attraverso il piacere soggettivo, McQueen decide per la denuncia attraverso una rappresentazione esplicita, esibita, oscena, che mira evidentemente a risvegliare la coscienza intorpidita dello spettatore. 
Adattamento del romanzo omonimo e biografico di Solomon Northup, di cui il regista britannico contempla i dodici anni del titolo e affida alle didascalie conclusive la battaglia legale sostenuta e persa dall'autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto, 12 anni schiavo corrisponde perfettamente l'ossessione di McQueen: lo svilimento progressivo del corpo sottomesso alla violenza del mondo. Dentro un affresco romanzesco e un infernale meccanismo kafkiano, un uomo dispera di ritrovare la propria libertà, rassegnandosi giorno dopo giorno alla schiavitù, sopportando torture fisiche e psicologiche sulla carne e nell'anima, che il padrone di turno vuole annullare. Come in Hunger e poi in Shame, che descrivono l'oppressione e l'isolamento, l'universo carcerario il primo, la dipendenza sessuale il secondo, in 12 anni schiavo la messa in scena si rivela virtuosa e discutibile, ostinata ad avanzare, a vedere e a sentire tutto. Indifferente al fuori campo e alla rinuncia ma fedele ai suoi 'motivi' (supplizio, assoggettamento, alienazione, agonia), McQueen ci (ri)propone percosse, fustigazioni, violazioni, torture che trovano in un piano sequenza infinito un compiacimento sadico ed estremo, appendendo il protagonista ad una corda e lasciandolo in equilibrio sulla punta dei piedi, disperatamente puntati per evitare il soffocamento. E nella 'durata' il regista ottiene il malessere dello spettatore a cui sbatte letteralmente in faccia la responsabilità di questa Storia. Senza cedere alla pietas e preferendo l'intimidazione. Il sovraccarico drammatico, l'addizione di orrori, la pesantezza dei corpi martirizzati dalla violenza e dai frequenti colpi di scena, che si appagano soltanto nei (malickiani) piani notturni e nelle stasi irreali della Louisiana, finiscono per essere l'argomento privilegiato della sua requisitoria e per trascurarne la dimensione sostanziale. Radicata nel fervore positivista, che forniva spiegazioni scientifiche allo schiavismo e produceva una classificazione barbara degli esseri umani, la schiavitù aveva un carattere istituzionale e rispondeva a bisogni economici precisi. Disporre di altri uomini per arricchirsi o per soddisfare perversioni e pulsioni era la deplorevole conseguenza. McQueen liquida la complessità del passato e di un sistema abominevole a favore della sua spettacolarizzazione e dei suoi effetti perversi, tutti incarnati dallo schiavista sadico e compulsivo di Michael Fassbender, interprete per la terza volta del pensiero ossessivo dell'autore.




THE BUTLER: Cecil Gaines ha imparato il mestiere di domestico nella Georgia degli anni Venti e nella tenuta dell'uomo che ha ucciso barbaramente suo padre in un campo di cotone. Riservato e (ben) educato nelle case dei bianchi, approda a Washington, dove sposa Gloria, diventa padre di Louis e Charlie e viene assunto come maggiordomo alla Casa Bianca. Orgoglioso della sua famiglia e appagato dal proprio destino, Cecil sta. Resta immobile (e invisibile) nella vita come lungo le pareti della stanza Ovale, dove serve il tè e soddisfa le richieste dei suoi presidenti. Fuori intanto il mondo si muove, il mondo si arrabbia, il mondo sta cambiando. In quel territorio infiammato milita il suo primogenito, deciso a lottare per i diritti della sua gente, resistendo al fianco di Martin Luther King o 'armandosi' al braccio di Malcolm X. Ripudiato il figlio, colpevole di non essere rimasto al suo posto, Cecil seguita a servire i presidenti che si susseguono mandato dopo mandato, sprofondando il paese nella guerra, riformandolo con le leggi sui diritti civili, integrandolo o mandandolo sulla Luna. Sette presidenti e diverse tazze riempite dopo, Cecil prenderà coscienza di sé e dei propri diritti, dimettendosi e scendendo in campo a fianco del figlio e di un sogno che ha il volto di Barack Obama. 
Contestando la candidatura di Norman Jewison alla regia di Malcolm XSpike Lee asseriva che soltanto un regista nero avrebbe potuto far giustizia alla sua opera e alla sua vita. D'accordo o meno con la dichiarazione del regista, quello che interessa adesso è la prossimità di pensiero e di posizione che assimila Spike Lee a Lee Daniels, convinto allo stesso modo che siano pochi i registi bianchi che abbiano saputo cogliere nel segno producendo film con tematiche afro-americane. A ragione di questo The Butler - Un maggiordomo alla Casa Biancaadotta il punto di vista degli afro-americani ed esclude personaggi bianchi che infilano la presa di coscienza. In una lunga parabola che dai campi di cotone della Georgia arriva all'elezione di Barack Obama, The Butler ripercorre le tappe fondamentali della storia americana nelle pieghe di una vicenda privata, facendo dialogare passato e presente, padre e figlio. Ispirato alla vita di Eugene Allen, maggiordomo per trentaquattro anni alla Casa Bianca, intervistato e portato a conoscenza da un giornalista del "Washington Post", The Butler fa il paio con Precious e prosegue il percorso di rilettura critica della Storia americana. In una dialettica costante, il film di Daniels intreccia e alterna la dimensione pubblica con quella privata, proponendo ciascuna come genesi e insieme contraccolpo di una storia più grande, che include sia gli eventi collettivi (il sit-in di Greensboro, i Freedom bus, l'attentato a Kennedy, la morte di Martin Luther King, la guerra in Vietnam) sia le tragedie intime (la morte del padre in Georgia, il decesso del figlio minore in Vietnam, le detenzioni del primogenito attivista per i diritti umani).
Approdato in sala dopo il Django Unchained di Tarantino e il Lincoln di Spielberg e prima di 12 anni schiavo di Steve McQueenThe Butler si accomoda tra opere che sembrano richiamarsi vicendevolmente, proseguendo l'una i discorsi dell'altra e componendo il colossale affresco di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale, tra parole e pistole. Insieme allo schiavo 'slegato' di Tarantino e al presidente (per)suadente di Spielberg, il maggiordomo di Daniels rimette mano (con guanto bianco) sulla questione razziale in un quadro politico-economico complesso e allargato, che contempla Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon e Reagan e confina nelle immagini di repertorio Ford e Carter, che dialoga coi padri buoni della nazione (Kennedy, Johnson) e disdegna fino al congedo quelli cattivi (Nixon, Reagan).
Con il narratore umile e schivo di Forest Whitaker, il regista identifica lo strumento perfetto per condurre la narrazione filmica, ottemperando alle istanze pedagogiche con ridondanza retorica e generose concessioni didascaliche, che seguono la ricostruzione puntuale. Diversamente da Tarantino, la cui visione eversiva e indocile sulla questione 'nera' viene giudicata 'bianca' e inadeguata, Daniels si incammina su una strada diversa, quella del romanzo popolare e della robusta iconografia, rivendicando una competenza antropologica e culturale che suona come una dichiarazione di apartheid. Una separazione dura a morire che mentre denuncia l'intolleranza razziale, discrimina un artista, riducendo al colore della pelle la sua capacità di affrontare certi temi.



PS: le recensioni dei film sono tratte dal sito "my-movies"

venerdì 6 giugno 2014

Prima di andare a dormire… di R.Branson

"Prima di andare a dormire… faccio sempre attività fisica per essere più produttivo e dormire bene. Dormo solo cinque ore per notte ma come un bambino. E l'ultima cosa che faccio, prima di addormentarmi, è sognare a occhi aperti. Immaginando grandi cose". (Richard Branson fondatore del gruppo Virgin)

tratto da "Millionaire" - Giugno 2014

Sogni...